Il “Maracanazo”, lo spettro che ammutolì il paese della samba

A sole tre persone è bastato un gesto per far tacere il Maracanã: Frank Sinatra, papa Giovanni Paolo II e me”

Alcides Ghiggia

Il calcio, si sa, è una scienza inesatta. È sacrificio, cuore, anima, gambe, muscoli, cervello. È passione, sudore, lacrime… Già, lacrime… Chiedetelo ai tifosi brasiliani che ebbero la (s)fortuna di assistere alla finale mondiale del 16 luglio del 1950 tra Brasile ed Uruguay a Rio de Janeiro, il giorno del cosiddetto Maracanazo, la più grande disfatta calcistica della storia. Non tanto per la palese differenza di valori tra le due compagini, quanto per il dramma sociale che colpì una nazione intera. All’epoca la coppa del mondo moderna era ancora conosciuta come coppa Rimet, dal nome dell’inventore della competizione e le squadre più forti a contendersela erano poche e ben diverse dalle compagini odierne (vedi lo stesso Uruguay). A quella appuntamento del 16 luglio Brasile ed Uruguay arrivarono seguendo percorsi e stati d’animo diversi:

Il Brasile non aveva mai avuto una vera rivale, complici anche le eliminazioni di Italia e Inghilterra, uniche ad essere davvero in grado di impensierire i verdeoro*, la vittoria finale dunque sembrava già scritta.

L’Uruguay era una squadra fortunata, passata grazie ad un 8 a 0 alla modesta Bolivia e senza aver mai giocato con la Francia, ritiratasi prima della gara. Alle ore 15.00 del 16 luglio del ’50 si sarebbe dovuta sbrigare frettolosamente l’ultima noiosa pratica per la selecão prima di alzare al cielo la coppa, ma le cose non andarono secondo previsione:

Il Brasile parte con un 2-3-4-1 (impensabile al giorno d’oggi!), ma ciò nonostante non riesce a sbloccare il risultato se non ad inizio ripresa, con Friaca che approfitta di un errore del portiere uruguayano. Ma dal quel momento sale in cattedra Alcides Ghiggia, che con un assist per Schiaffino al ’66 e una rete al ’79 ribalta il risultato e manda una nazione in paradiso e l’altra all’inferno.

Fischio finale, Maracanã ammutolito, uruguayani increduli, in lacrime, festanti; banda musicale nel panico più totale avendo preparato solo l’inno brasiliano e non conoscendo quello uruguayano (tant’è vero che non fu suonato), giocatori e tifosi brasiliani con sguardi persi nel vuoto e quello sarebbe stato l’inizio di un dramma nazional popolare.

Decine di morti per infarto all’interno dello stadio stesso, gente suicidatasi a pochi minuti dal fischio finale, lo sbando di un paese documentato dai 3 giorni di lutto nazionale proclamati: si parla di 34 suicidi e 56 morti di arresto cardiaco in tutto il paese, il difensore brasiliano Danilo cadde in depressione e tentò il suicidio più volte, oltre alla stampa nazionale che addirittura titolò “Nossa Hiroshima”, la nostra Hiroshima. Ecco, il calcio è passione, sudore, lacrime, si… Ma prima di tutto divertimento e come tale deve e dovrà sempre essere vissuto!

* la nazionale brasiliana fino al giorno del Maracanazo, indossava una divisa completamente bianca, con il solo colletto blu; da quel giorno la federazione decise di cambiarle colore per scaramanzia dapprima passando a maglia blu e pantaloncini bianchi (l’attuale seconda divisa) e solo nel 1954 avrebbe indossato i cosiddetti colori verdeoro.

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