Il Rojava è stato al centro del fuoco incrociato di macchine fotografiche, videocamere e di fiumi d’inchiostro nella recente disfatta di Daesh (ISIS), che ha visto il crollo territoriale del sedicente califfato in Siria e in Iraq.
Per collocare spazialmente il Rojava bisogna immaginare il Medio Oriente come une grande matriosca al cui interno vi è il Kurdistan la cui appendice in Siria prende il nome appunto di Rojava, che in lingua kurda significa “occidente”. Le altre tre regioni kurde sono quella turca – la più importante territorialmente e demograficamente –, quella iraniana e quella irachena.
Il Rojava si trova tra due Stati solo apparentemente diversi: la Turchia, ufficialmente laico ma di fatto con fortissime tendenze islamiche e con un pronunciato accentramento del potere nelle mani di Erdogan, e la Siria, di fatto una dittatura totalitaria. Tra questi due Paesi soffiano venti di guerra e non c’è che il Rojava a dividerli. La Turchia ha invaso militarmente parte della Regione autonoma a partire dal 2018.
Quella kurda è la più grande Nazione al mondo senza Stato, obiettivo di veri e propri genocidi, deportazioni forzate e tentativi di annichilimento della propria identità. Nel 2011, il dòmino delle primavere arabe non ha risparmiato la Siria e i Kurdi approfittano del caos generale per proclamare l’Amministrazione autonoma della Siria del nord-est.
ÖCALAN E IL PKK – Il Rojava si distacca qualitativamente da qualsiasi altra forma di lotta per l’indipendenza perché l’obiettivo ultimo non è la creazione di uno Stato kurdo come invece desideravano i nazionalisti kurdi del secolo scorso o come vuole tuttora il Kurdistan iracheno capeggiato dalla famiglia Barzani.
I Kurdi siriani si rifanno alla corrente politica di Abdullah Öcalan, dal 1978 a capo del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) e ora in prigione nel carcere d’İmralı, dopo che il governo D’Alema negò la permanenza in Italia dove aveva richiesto asilo politico.
Nel tempo il PKK ha abbandonato le proprie radici marxiste-leniniste che spesso l’hanno avvicinato all’URSS, abbracciando l’ideale del socialismo libertario e del confederalismo democratico, concetto sviluppato dal filosofo americano Murray Bookchin che verrà analizzato negli articoli seguenti.
Il Rojava è sempre stato il rifugio dei guerriglieri del PKK, che qui hanno i centri di addestramento e che hanno intrattenuto relazioni amicali con popoli di altre etnie e religioni come gli Yazidi, il bersaglio primario della feroce repressione di Daesh.
IL PYD, LE YPG E LE YPJ – In Siria del Nord il PKK trova nel PYD (Partito dell’Unione Democratica) il principale interlocutore politico e militare. Il PYD è il più importante fautore dell’Amministrazione autonoma e della cacciata dei miliziani neri dell’ISIS.
Le forze armate del PYD, chiamate a difendere tutto il Rojava e non solo i Kurdi, sono principalmente due: le YPG (Unità di Protezione del Popolo) e le YPJ (Unità di Protezione delle Donne).
Icone della lotta all’ISIS, queste forze rappresentano però ben altro: sono la personificazione in carne e ossa della politica di Öcalan in cui l’individuo deve contribuire in prima persona alla difesa del proprio territorio, mettendo da parte qualsiasi differenza etnica e religiosa, pensando esclusivamente al bene comune.
È questo, in estrema sintesi, il succo del suo concetto di “Nazione Democratica”, che lui considera come la sola via di uscita dal pantano di guerre civili di matrice etnico-religiosa che insanguina da troppo tempo quella regione. Per l’Occidente sarebbe un esempio di alternativa alla prassi capitalista e alla sua forma, ritenuta da Öcalan, più barbara, ovvero l’imperialismo.
LA TESTIMONIANZA – Per una migliore comprensione della questione kurda e della figura di Abdullah Öcalan, riporto una domanda posta a Firat Ak, amico kurdo che ho conosciuto all’università della Valle d’Aosta, espulso dalla Turchia per i propri ideali.
La pena capitale per Öcalan è stata tramutata in carcere di massima sicurezza e questo non ha fatto del leader kurdo un martire a livello internazionale (eventualità che si sarebbe concretizzata con la sua morte), ma credi che la prigionia possa avere comunque favorito indirettamente, rafforzandoli, i movimenti kurdi in Turchia e in Siria e le loro aspirazioni?
“Quando venne scoperto il complotto sull’arresto di Öcalan, l’arresto è diventato una possibilità per la lotta di liberazione del popolo kurdo. Se gli “egemoni” hanno deciso di non ucciderlo è perché hanno capito che la lotta del popolo kurdo non è solo quella armata, ma è politica e culturale. […]. Öcalan ha utilizzato gli strumenti degli Stati “democratici”. Nei suoi scritti sulla nascita del paradigma della confederazione democratica, egli scrive le proprie difese non solo per spiegare il suo cambiamento personale, ma cerca di ripercorrere tutta la storia dell’Umanità, dall’antichità ai giorni d’oggi. Potremmo dire che Öcalan, pur essendo sotto la minaccia costante della morte, è riuscito a restituire all’umanità una riflessione non solo sul suo partito e sui suoi errori, ma anche sullo Stato; è riuscito a focalizzarsi sulla questione della civiltà in Medioriente e su quella del potere. È vero che sin dagli anni Novanta e fino ad oggi ha fatto dichiarazioni unilaterali di cessate il fuoco per una risoluzione pacifica, ma lo Stato turco le ha sempre ignorate”
L’arresto di Öcalan ha mostrato alla Corte d’Appello dell’UE, alla Commissione per i diritti umani e alla Commissione contro la tortura per prigionieri (ecc.) di quale violenza i Kurdi sono stati vittime; violenza che è stata sempre negata sia da parte dello Stato turco che da altri soggetti internazionali. Leggendo i suoi libri/difese tradotti in diverse lingue da parte di attivisti internazionalisti, giornalisti, academici, è aumentata la solidarietà e la rabbia contro il terrore dello Stato turco.
Così anche noi, come individui, siamo riusciti a poter leggere e riflettere sul socialismo rivoluzionario, sulla democrazia dal basso e quella radicale, sull’uguaglianza non solo tra i soggetti statali ma anche tra i generi, i popoli, le culture e tutti gli esseri viventi. Ha fatto la distinzione tra la violenza e il “militarismo” e l’autodifesa contro il colonialismo. Ha aperto una strada per l’uscita dalla modernità capitalista. Visto che per lui il sistema non è statalista, il suo pensiero è adattabile ad ogni necessità, lo si può sviluppare secondo la regione, il territorio e le culture presenti. Quindi, sì ha contribuito tantissimo a trovare una soluzione e riflessione lucida nel mosaico delle culture che si trovano in Medioriente, ovvero nella culla della civiltà, la Mesopotamia.
Francesco Mirra