Le versioni di Tacito e Giuseppe Flavio che non vi faranno mai tradurre

Chi ha frequentato il liceo e ha dovuto studiare lingue come latino e greco, spesso e volentieri si è trovato a dover tradurre, come “compito a casa” o versione di verifica in classe, dei passi tratti dalle opere di Publio Cornelio Tacito o di Flavio Giuseppe.

Entrambi vissuti nel I secolo d.C., rispettivamente di origine gallica (Francia) e giudaica, sono riconosciuti come gli storici più importanti e attendibili della storia antica.

Non vogliamo tediarvi con le fonti biografiche, le loro opere e influenze, per questo ci sono già i libri (o Wikipedia, per i più svogliati), ma vogliamo soffermarci su alcuni passi delle loro opere, messi sotto una lente di ingrandimento, in larga parte, dallo studioso Mauro Biglino, che ci sembrano quanto meno meritevoli di attenzione e che fanno riflettere non poco le menti cosiddette “aperte”.

Partiamo con Tacito, in Historiae Libro V paragrafo 13, che, descrivendo la distruzione di Gerusalemme da parte dei Romani, dice:

“S’eran verificati dei prodigi; prodigi che quel popolo, schiavo della superstizione ma avverso alle pratiche religiose, non ha il potere di scongiurare, con sacrifici e preghiere. Si videro in cielo scontri di eserciti e sfolgorio di armi e, per improvviso ardere di nubi, illuminarsi il tempio. S’aprirono di colpo le porte del santuario e fu udita una voce sovrumana annunciare: «Gli dèi se ne vanno!» e intanto s’avvertì un gran movimento, come di esseri che partono. Ma pochi ricavavano motivi di paura; valeva per i più la convinzione profonda di quanto contenuto negli antichi scritti dei sacerdoti, che proprio in quel tempo l’Oriente avrebbe mostrato la sua forza e uomini venuti dalla Giudea si sarebbero impadroniti del mondo (…)

(…) La massa degli assediati, d’ogni età e dei due sessi, maschi e femmine, ascendeva, come ci hanno confermato, a seicentomila. Chiunque poteva imbracciare armi; e ad affrontare i rischi eran pronti più di quanto il numero comportasse. Eguale determinazione vivevano uomini e donne e, nella prospettiva d’esser costretti a mutar sede, la vita li spaventava più della morte. Contro questa città e questa gente, poiché la posizione non consentiva un assalto o improvvisi colpi di mano, Cesare Tito decise di combattere impiegando terrapieni e tettoie. Ripartisce i compiti fra le legioni e gli scontri furono sospesi, finché non vennero affrontati con tutti i mezzi escogitati dagli antichi e dai moderni, per espugnare la città.”

No… non stavano girando Guerre Stellari, ma solo la scena che riporta Tacito con dovizia di particolari. Emblematico ciò che i suoi scritti lasciano presagire, soprattutto perché la fama di essere uno storico molto “oggettivo” e scarsamente sensibile agli “avvenimenti divini” lo ha da sempre preceduto. A voi i giudizi.

Se vi sembra troppo poco, vi riportiamo allora i passi altrettanto significativi del Bellum iudaicum di Giuseppe Flavio Libro VI, cap. 5,289-299.

Stesso periodo (anno più, anno meno), stesso contesto:

(289) come quando sulla città apparvero un astro a forma di spada e una cometa che durò un anno,
(290) o come quando, prima che scoppiassero la ribellione e la guerra, essendosi il popolo radunato per la festa degli Azzimi nell’ottavo giorno del mese di Xanthico, all’ora nona della notte l’altare e il tempio furono circonfusi da un tale splendore, che sembrava di essere in pieno giorno, e il fenomeno durò per mezz’ora:
(291) agli inesperti sembrò di buon augurio, ma dai sacri scribi fu subito interpretato in conformità di ciò che accadde dopo.
(292) Durante la stessa festa, una vacca che un tale menava al sacrificio partorì un agnello in mezzo al sacro recinto;
(293) inoltre, la porta orientale del tempio, quella che era di bronzo e assai massiccia, sì che la sera a fatica venti uomini riuscivano a chiuderla, e veniva sprangata con sbarre legate in ferro e aveva dei paletti che si conficcavano assai profondamente nella soglia costituita da un blocco tutto d’un pezzo, all’ora sesta della notte fu vista aprirsi da sola.
(294) Le guardie del santuario corsero a informare il comandante, che salì al tempio e a stento riuscì a farla richiudere.
(295) Ancora una volta questo parve agli ignari un sicurissimo segno di buon augurio, come se il Dio avesse spalancato a loro la porta delle sue grazie; ma gli intenditori compresero che la sicurezza del santuario era finita di per sé e che l’aprirsi della porta rappresentava un dono per i nemici, e pertanto interpretarono in cuor loro il prodigio come preannunzio di rovina.


(296) Non molti giorni dopo la festa, il ventuno del mese di Artemisio, apparve una visione miracolosa cui si stenterebbe a prestar fede;
(297) e in realtà, io credo che ciò che sto per raccontare potrebbe apparire una favola, se non avesse da
una parte il sostegno dei testimoni oculari, dall’altra la conferma delle sventure che seguirono.
(298) Prima che il sole tramontasse, si videro in cielo su tutta la regione carri da guerra e schiere di armati che sbucavano dalle nuvole e circondavano le città. Inoltre, alla festa che si chiama la Pentecoste,
(299) i sacerdoti che erano entrati di notte nel tempio interno per celebrarvi i soliti riti riferirono di aver prima sentito una scossa e un colpo, e poi un insieme di voci che dicevano: “Da questo luogo noi ce ne andiamo”.

In entrambi gli estratti raccolti notiamo dovizia di particolari e precisione quasi cronometrica nel narrare avvenimenti e “avvistamenti”, ma questi due storici non sono stati gli unici a descrivere fenomeni paranormali nell’antica Roma.
Autori come Plinio il Vecchio, Tito Livio e Giulio Ossequente hanno raccontato l’apparizione nel cielo di torce, fiaccole e “scudi ardenti” e riferito anche l’apparizione di “due soli” o “due lune”, mentre Seneca nelle Naturales quaestiones ha riferito dell’apparizione di “travi luminose”; Cicerone nel De divinationae ha anche riferito di un’apparizione del “sole di notte”.

Abbiamo ricercato e letto molte disamine sul tema: da chi non si pronuncia, a chi parla addirittura di “allucinazioni collettive”, a chi fa riferimento a fenomeni di Clipeologia, termine derivante proprio da quei clypei ardentes (“scudi ardenti”) riferiti dai vari autori latini di cui sopra. Questa pseudoscienza, branca dell’ufologia, si occupa di presunti avvistamenti di oggetti volanti non identificati che sarebbero avvenuti nel passato, anche remoto, dell’umanità, molto tempo prima dell’incidente di Roswell e della coniazione del termine U.F.O.

[QUI se volete ridare un occhiata agli U.F.O. individuati nell’arte del Medioevo e del Rinascimento]

Allora facciamo un passo indietro e cerchiamo di comprendere le reali ragioni del perché, nei tempi antichi, si scriveva. Tralasciando il dilagante mecenatismo dell’epoca, che portava sicuramente gli autori ad esagerare e “pompare” i propri signori, al fine di conferire loro un immagine molto più potente e prestigiosa, in questi casi riportati, come negli altri esempi, non si spiegano le ragioni per cui gli autori avrebbero dovuto inventarsi queste mirabolanti storie. Se è vero che si scriveva per lasciare traccia e memoria, ma anche per essere letti ed esaminati dai propri contemporanei, ci viene difficile pensare che siano tutte invenzioni.

E allora molte domande sorgono spontanee: A chi si riferiscono gli autori? Chi sono gli individui che dicono di voler lasciare quel luogo? Da chi era composto quell’esercito celeste? Cos’erano in realtà scudi, torce e fiaccole nel cielo?

Come diceva Agatha Christie:

«Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova»

 

 

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