Analizziamo il fenomeno ‘baby-gang’ con una delle vittime: “Non volevo più uscire di casa”

Ad oggi reperire informazioni su qualsiasi argomento sappiamo essere un qualcosa “a portata di click”: basta andare su google e digitare un termine per avere immediatamente una serie infinita di definizioni, articoli correlati… e chi più ne ha più ne metta!

Tendenzialmente la prima pagina alla quale si fa riferimento è Wikipedia, soprattutto se ci si appresta a fare una ricerca o un approfondimento ben preciso e si cercano informazioni affidabili. In questo caso però è proprio Wikipedia a sminuire, in un certo senso, il fenomeno delle baby gang attribuendo ai mass media la colpa di enfatizzare i singoli episodi al fine di creare moral panic.

  • Ma è davvero così? Cosa sappiamo effettivamente delle baby gang?

Il termine inglese, perché ormai usare sempre l’inglese sappiamo essere trendy, viene usato per designare un gruppo di minorenni che assumono comportamenti violenti nei confronti di cose o persone fino a provocare seri danni e conseguenze, per se stessi e per gli altri. Le ragioni che spingono questi ragazzini a reazioni definibili estreme possono essere ricercate nel contesto familiare in cui si trovano, nel luogo in cui vivono, nel desiderio di entrare a far parte di un gruppo e sentirsi accettati e rispettati o addirittura sui social network che propongono e idealizzano modelli di violenza decisamente non accettabili.

“NON VOLEVO USCIRE DI CASA” – Come sempre si tirano in ballo le statistiche, che evidenziano come i danni maggiormente inferti comprendano lesioni, violenza privata, ingiurie e diffamazione fino ad arrivare a racket, estorsioni, pestaggi e vere e proprie rapine. Una vittima di questi episodi, allora sedicenne di Giffoni che preferisce rimanere anonimo, ci offre la sua testimonianza:

“Quando è avvenuta questa triste vicenda avevo 16 anni e stavo tornando a casa dopo
una serata con amici. Improvvisamente si è avvicinato un gruppo di 3/ 4 ragazzi e hanno iniziato ad aggredirmi; chiaramente ho riportato molteplici danni fisici e ho deciso di denunciare l’accaduto ai carabinieri. Nel periodo successivo ho spesso avuto paura di subire una nuova aggressione e infatti evitavo di uscire da solo. Poi, con l’aiuto della mia famiglia, dei miei amici e dei professori ho superato il trauma e ora vivo la mia vita normalmente, anche se non dimenticherò mai ciò che ho passato.”

La testimonianza riportata è quella di una vittima che può considerarsi sotto alcuni aspetti “fortunata”, dal momento che può effettivamente ancora raccontare l’accaduto, cosa che invece purtroppo molte altre non possono più fare. Da non sottovalutare sono però, oltre ai danni fisici, quelli psicologici che questo tipo di esperienza porta con sé: ansia, paura, mancanza di fiducia, difficoltà a rapportarsi con gli altri.

COME CONTRASTARE IL FENOMENO – Esistono due modalità che possono essere utili a contrastare questi fenomeni: la prima è quella definita della “difesa interiorizzata” e consiste nell’attuare una campagna di prevenzione, educando i ragazzi alla netta distinzione tra bene e male, naturalmente sia a scuola che in famiglia.

La seconda, invece, è quella della “tolleranza zero” e sostiene la predisposizione di leggi più severe come l’abbassamento dell’età imputabile e l’incremento del periodo di detenzione presso le carceri minorili.

E voi, cosa pensate possa essere più efficace?

Anna Spagnuolo

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