“ […] Ci è difficile vivere questo momento di celebrazione senza condividere con voi alcune
preoccupazioni. Crediamo che sia oggi necessario cominciare descrivendo il contesto lavorativo, sociale e culturale in cui gran parte di noi è ormai inserita. Contesto che negli ultimi tredici anni è stato investito da cambiamenti profondi. Questi cambiamenti, crediamo, la Scuola Normale non li ha semplicemente subiti, ma purtroppo ha contribuito a legittimarli. In termini generali, ci riferiamo al processo di trasformazione dell’università in senso neoliberale. Con questa espressione, intendiamo un’università-azienda in cui l’indirizzo della ricerca scientifica segue la logica del profitto; in cui la divisione del lavoro scientifico è orientata a una produzione standardizzata, misurata in termini puramente quantitativi. Un’università in cui lo sfruttamento della forza lavoro si esprime attraverso la precarizzazione sistemica e crescente, in cui le diseguaglianze sono inasprite da un sistema concorrenziale che premia i più forti e punisce i più deboli, aumentando i divari sociali e territoriali […]”.
Questo è un estratto del discorso accorato, profondamente sentito e sofferto di tre neolaureate (Virginia Magnaghi, Valeria Spacciante e Virginia Grossi) della prestigiosa Scuola Normale di Pisa. Il discorso, fortemente critico e strutturalmente pungente, denuncia un modello di università (definito università-azienda) in cui lo scopo finale, come qualsiasi altro settore industriale, è quello di massimizzare i profitti riducendo le spese. Le tre studentesse avanzano la loro audace – e al tempo stesso talmente evidente da non essere più percepita, come nell’egemonia gramsciana – tesi non senza dati alla mano che qui riportiamo in calce:
“[…] L’Italia spende lo 0,3% del PIL nell’istruzione terziaria, contro lo 0,7 della media europea. Nell’ultimo decennio, la spesa pubblica per la ricerca è stata tagliata di un quinto. Nel frattempo, le iscrizioni all’università sono scese del 9,6% e nel 2020, la popolazione tra i 25 e i 34 anni con istruzione terziaria in Italia si aggirava intorno al 29% contro il 41% della media europea. Ma i dati sul personale sono ancora più significativi: dal 2007 al 2018, le borse di dottorato bandite dalle università italiane sono diminuite del 43%, del 56% al Sud. Tra il 2008 e il 2020, nelle università statali, i ricercatori sono diminuiti del 14% […]. Il personale a tempo determinato è ormai ben maggiori del personale a tempo indeterminato […]”.
Ecco, diciamolo, il quadro delle università italiane è estremamente preoccupante. Tuttavia, esse si iscrivono oramai in un contesto socio-economico molto più generale. La critica evidenzia molto di più che semplici sfumature marxiste all’ “industria del profitto”.
Il colpo definitivo al “sistema istruzione” viene almeno dal 1980, con il nuovo assetto politico, economico e quindi sociale del new public management di origine anglosassone (della coppia Thatcher-Reagan). Secondo questa nuova matrice, ad ogni singolo aspetto della componente sociale deve corrispondere una resa economica. Tutto deve essere ricondotto al funzionamento di un’azienda e quindi, al rispetto di un bilancio che deve per forza essere positivo se non si vuole essere fagocitati dal sistema.
Ciò riguarda ogni aspetto della vita sociale di un individuo o di una comunità: l’amministrazione, la salute, l’istruzione e la ricerca e, quindi, l’università. Ciò che non frutta si svende, si privatizza. Questo ha quindi comportato che la più grande azienda (una sorta di multinazionale con diverse filiali) diventasse proprio lo Stato, che deve far quadrare i conti. Il discorso delle due Virginia e di Valeria riassume quindi tutto questo dal punto di vista dell’istruzione.
L’istruzione, e in particolar modo quella elitista e strumentalmente meritocratica di istituti come la Normale, viene ridotta, sintetizzata ed utilizzata come scusa per tagliare i fondi. Allora le tre ragazze si trovano in un limbo paradossale: studentesse di un istituto prestigioso (che probabilmente hanno scelto proprio per questo) che ora si trovano (giustamente) a criticare. La speculazione si risolve però in un nulla di fatto perché quella critica non è altro che una grande dichiarazione di amore per un istituto che le ha avviate nel mondo che loro vorrebbero semplicemente democratizzare. E forse non è un caso che quella critica sia partita proprio da lì. Si potrebbe scadere in un facile (ma giustificato) rapporto tra i soldi spesi per la guerra (in un Paese che la rifiuta) e gli investimenti nell’istruzione terziaria (e nell’istruzione in generale).
Briciole. Bazzecole. Siamo un Paese e una società che è assetata di giovani menti: c’è un futuro da progettare, condizioni di vita da migliorare, errori da limitare. Per fare tutto questo, ci vogliono sicuramente investimenti più cospicui, ma soprattutto un cambio radicale di mentalità e questo non può partire che da un luogo dove la critica, raffinata e mirata, rappresenta il pane quotidiano: l’università. Da questa istituzione ci si aspetta un’identità delineata e riconoscibile, non una lenta assuefazione (che conduce irreversibilmente alla morte) ad un sistema economico nichilista.
Di seguito il discorso integrale:
Francesco Mirra