La presenza nera nella Cina rosso-sbiadita: nascita e fine del sogno economico africano nella terra del Dragone

È proprio vero che quello del razzismo è un circolo vizioso che tocca indistintamente chiunque entri in contatto con le meravigliose nefandezze del globalismo accelerato. Quando allo scoppio della pandemia, in Occidente ce la prendevamo con i Cinesi che ci avevano ‘troianamente’ introdotto il virus, siamo stati poi noi italiani ad essere stati vittime, nel nostro stesso Occidente, di atti di scherno e di diffidenza.

Io, da espatriato in Francia, ne sono stato un triste testimone. E in Cina, dove tutto ha avuto inizio, con chi se la sono presa? Hanno incolpato il governo? L’ormai celebre laboratorio di Wuhan? No, parecchi se la sono presa con le numerose minorità presenti nel Paese, che abitano le periferie (circa il 10% della popolazione totale) e…con gli Africani!

Questi sono stati incolpati di propagare il virus in tutta la Cina a causa delle loro condizioni precarie. Si, perché anche la Cina è diventata, col suo spinto liberalismo mascherato da una facciata socialista, meta di arrivi dal continente africano. La presenza africana in Cina è un fenomeno quasi dimenticato dalla letteratura scientifica, tranne per qualche eccezione. Si tratta di un paradosso se si pensa che fino a qualche anno fa la capitale della provincia del Guangdong, Canton, accoglieva la più grande comunità africana al mondo, circa centomila persone.

LE RAGIONI DELLA MIGRAZIONE – I motivi che spingono un buon numero di Africani a lasciare i propri paesi d’origine sono diversi e possono essere sia esogene che endogene alla Cina stessa. Le chiusure delle frontiere in Occidente e la costruzione di un clima di avversità nei loro confronti, spinge alcuni di questi migranti ad intraprendere nuove rotte, come quella cinese. Le relazioni tra la Cina e i paesi africani risalgono al secolo scorso ma avevano una finalità diversa, quella di esportare i valori del comunismo cinese. Al giorno d’oggi la musica è diversa e i vertici sino-africani che hanno luogo a partire dal 2006 hanno scopi prettamente economici.

La Cina è quindi un paese estremamente appetibile per questi migranti, che si ritrovano in casa un’immagine del paese asiatico e del tenore di vita dei suoi abitanti fortemente distorta. La Cina assume i contorni nebbiosi della realtà onirica, dove i progressi della società capitalistica si intrecciano alle mirabolanti promesse di una società equa e sociale. Tuttavia, per qualcuno la società cinese è più giusta che per altri. Infatti, si possono delineare tre profili tipici di migranti africani che si recano in Cina.

Il primo è quello del Manager, colui che fa affari con le più importanti imprese cinesi presenti in Africa e che, per un motivo o per un altro, si stabilisce per buona parte del proprio tempo nel paese asiatico. Il razzismo coinvolge tutti gli africani in Cina, da quelli dell’Africa del Nord ai subsahariani, ma è sicuramente più attenuato con i manager, tendenzialmente meno esposti a discriminazioni razziali.

Il secondo profilo è quello dello studente africano in Cina. Gli accordi tra le università africane e cinesi sono sempre più frequenti. Se secondo le ultime statistiche, la meta prescelta rimane sempre la Francia, per via della lingua, la Cina sta dimezzando a grandi falcate il gap. Questi studenti sono spesso vittime di atti discriminatori da parte della popolazione locale e la crisi sanitaria del Covid ha fatto emergere le contraddizioni di un paese estremamente etnocentrico, con l’etnia Han unica vera ereditaria del grande Impero di Mezzo.

Il terzo profilo che emerge è quello delle migliaia di lavoratori che raggiungono legalmente il paese asiatico tramite un visto turistico, ma che poi si danno alla macchia, diventando veri e propri fantasmi agli occhi delle autorità cinesi, che stanno diminuendo drasticamente le concessioni di questi visti. Sono quest’ultimi, proprio perché “non esistono” legalmente, i più esposti alle numerose discriminazioni della società cinese e sono spesso vittime di atti di repressione della polizia. Il totale di questi tre profili di Africani in Cina ammonta a circa mezzo milione di individui sul territorio cinese, ma questi si concentrano principalmente in alcune città.

LE CITTA’ DIASPORA AFRICANA IN CINA – Le città in cui si concentrano i migranti africani in Cina sono principalmente quattro e, se escludiamo Pechino, le altre tre sono sulla costa est, il che sottolinea le dinamiche commerciali che caratterizzano la presenza africana. A Guangzhou (Canton), i migranti africani si sono raggruppati in quella che, a partire dal gergo dei tassisti, è stata ribattezzata Chocolate City (la città del cioccolato, appunto per il colore della pelle dei suoi abitanti). Si trattava della maggiore comunità africana fuori dal continente, ma a causa delle politiche di repressione di Pechino, i suoi abitanti stanno diminuendo drasticamente, disperdendosi in altre città. Gli altri centri sono Hong Kong, che la Cina ritiene essere una propria dipendenza, e Yiwu, dove ci
sono soprattutto gli Africani di origine araba. Gli abitanti fissi di origine africana sono 3.000 ma questa città dallo spirito commerciale accoglie circa 300.000 Africani durante tutto l’anno, che generano un profitto di circa 8 miliardi di dollari, pari al 2,7% degli scambi commerciali tra la Cina e l’Africa. Per concludere, a Pechino possiamo ritrovare gli studenti, i traders e gli uomini d’affari ma anche numerosi dipendenti delle ambasciate.

IL RAZZISMO – I casi di discriminazione nei confronti degli Africani sono sempre più numerosi e sembrano lasciare indifferenti le istituzioni. Basti pensare ad una pubblicità passata su una delle principali reti nazionali che promuoveva l’efficienza di un sapone per le lavatrici. Spot, tra l’altro, trito e ritrito: un uomo nero infilato in una lavatrice che esce bianchissimo, come un cinese.

Le autorità cinesi, che fino a qualche anno fa incoraggiavano gli Africani a raggiungere la “nuova terra promessa”, stanno disponendo nuove misure di controllo e di estrema regolamentazione del fenomeno migratorio, che contribuisce ad aumentare un senso di insicurezza e di sfiducia sociale nei confronti dei nuovi venuti. Tuttavia, non mancano casi di integrazione come i matrimoni misti, ma allora il futuro dei figli mulatti sembra essere assai più complicato di quelli discendenti dalla “pura razza” Han. È per questo che alcuni decidono di ritornare nei loro paesi d’origine o di migrare in altri paesi asiatici, sancendo la fine del Chinese Dream.

Francesco Mirra

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