Quando gli “altri” eravamo noi: la trafila per Ellis Island, l’isola delle lacrime

«[…] Tenetevi, o antiche terre, la vostra vana pompa – grida essa [la statua] con le silenti labbra – Datemi i vostri stanchi, i vostri poveri, le vostre masse infreddolite desiderose di respirare liberi, i rifiuti miserabili delle vostre coste affollate. Mandatemi loro, i senzatetto, gli scossi dalle tempeste e io solleverò la mia fiaccola accanto alla porta dorata.»

Così recita il sonetto The New Colossus di Emma Lazarus, scritto nel 1883 e inciso sul piedistallo della Statua della Libertà – o “Madre degli Esuli”, come lei stessa la definì.

Lungi dal voler qui analizzare le dinamiche della migrazione, si propone, invece, uno spunto di riflessione sul periodo storico in cui “gli altri” eravamo noi.

Asserviti, sfruttati, in fuga da fame, miseria e vittime d’odio: questo era il panorama sociale che caratterizzava le navi provenienti dal Vecchio Continente, panorama in cui rientravano, a cavallo tra ‘800 e ‘900, anche gli italiani.

Era il Nord America la destinazione ambita – ma non la sola – dai più, con le sue strade lastricate d’oro e la fame di manodopera che dava speranza di una vita dignitosa a chi una vita dignitosa non l’aveva. Il suolo degli Stati Uniti fu aperto quasi fino al 1875, in seguito cominciarono ad essere applicate misure restrittive finché, il 1° gennaio 1892, venne inaugurato il centro di Ellis Island.

ELLIS ISLAND – L’immigrazione diventò istituzionalizzata. In tutte le lingue dei popoli che la attraversarono, Ellis Island prese ad esser chiamata “l’isola delle lacrime”.

I più fortunati vi rimanevano solo per poche ore, il tempo di essere sottoposti ad un controllo medico e di essere etichettati da una lettera alfabetica che segnalasse eventuali sintomi di malattia o indicasse parti del corpo da controllare. Nell’eventualità di un male contagioso o di infermità mentale si procedeva al rimpatrio immediato.

Tra le lunghe attese cariche d’angoscia, le incertezze e la vergogna per il marchio ricevuto, l’odissea dei migranti non era ancora terminata: l’ultima prova da superare era quella delle 29 domande rivolte dall’ispettore del legal desk, volte ad accertare, tra le altre cose, identità, condizione economica e legami familiari. Se l’ispettore si riteneva soddisfatto, l’immigrato si vedeva timbrare il visto e sentiva pronunciare quella frase tanto agognata: Welcome to America!

In caso contrario, con la sigla SI su un foglio (Special Inquiry), il passeggero veniva sottoposto ad un interrogatorio ancor più circostanziato da una commissione. Coloro che superavano tutte le ispezioni guadagnavano il diritto di metter finalmente piede nella terra delle opportunità. A questo punto, però, molti videro il mito sfaldarsi davanti ai loro occhi: le strade non erano più lastricate d’oro, i primi arrivati avevano lasciato ben poco da spartire, ciò che restò per i più fu un posto in fabbrica con turni di lavoro che spesso raggiungevano le quindici ore.

Poi vennero le prove sociali: il lento processo di integrazione fu spesso pagato a prezzo della propria identità culturale, il che finì col creare divari intergenerazionali. Importante, sotto questa prospettiva, è la testimonianza lasciataci da Leonard Covello – pedagogista e accademico italiano naturalizzato statunitense – attraverso The Heart is the Teacher, le sue memorie:

«Stavamo diventando americani imparando a vergognarci dei nostri genitori».

Ma di prove delle lotte che videro protagonisti gli emigranti italiani ne è piena la letteratura italoamericana, ricordiamo ad esempio: Christ in Concrete (1939) di Pietro di Donato, Wait Until Spring, Bandini (1938) di John Fante, Like Lesser Gods (1949) di Mari Tomasi e The Weak and the Strong (1952) di Julia Savarese.

Il passaggio da paese d’emigrazione a paese d’immigrazione non può, e non deve, in alcun modo portarci a dimenticare quello che è stato il nostro – tra l’altro, recente – passato, perché “quelli” dall’altra parte della riva, fino a poco tempo fa, eravamo noi.

Francesco Albanese

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