L’evidenza empirica dimostra che un “asinello” qualsiasi col tempo, se addestrato a dovere, riesce a svolgere i lavori più disparati. Può imparare anche a uccidere, e a farsi uccidere, se viene indottrinato e convinto di essere dalla parte dei “buoni”.
Questo semplice e banale parallelismo ci serve per introdurre la pubblica amministrazione. Questa è composta da persone, non da nozioni, e il funzionamento della macchina pubblica dipende più che altro da quei lavoratori che possiedono un insieme di caratteristiche difficilmente rilevabili nel corso delle procedure selettive. È necessario, anzi, indispensabile, definire un sistema di misura in grado di rilevare anche caratteristiche diverse: il livello di consapevolezza, di maturità, di responsabilità, la capacità di autonomia e di adattamento dei candidati. E, ancora, il senso critico, la capacità di risolvere i problemi, l’autocontrollo, la capacità di usare la logica, l’intùito, l’intelligenza e la sicurezza emotiva ecc ecc.
Oggi più che mai, invece, nella Pubbliche Amministrazioni troviamo solo gli asinelli di turno con un personale che presumibilmente resterà all’interno dell’organizzazione per un arco temporale molto ampio, di cui ancora si ignorano gli sviluppi, continuando a svolgere meccanicamente tutto ciò per cui è stato addestrato. Per fare un altro esempio trovare un buon programmatore Java, non è poi così difficile, mentre trovare un programmatore Java che sappia lavorare in autonomia, ridurre i conflitti, trovare nuove motivazioni, seguire le trasformazioni della società e adattarsi ai cambiamenti, mantenendo un buon livello di curiosità e di partecipazione alle attività istituzionali, è più complesso.
Il risultato di questa confusione, di questa piattezza, si palesa in tutta la sua pericolosità nel momento in cui i lavoratori esauriscono la spinta produttiva dettata dall’entusiasmo iniziale e diventano un problema anziché una risorsa. Problema a carico della società civile per almeno quarant’anni, soprattutto in piccoli contesti dove per anni ci si ritrova sempre le stesse persone che spesso non sanno neanche lontanamente riconoscere i reali bisogni della società.
Ma, piuttosto che limitarsi ai casi persi dei microcosmi ci sarebbe da mettere in discussioni l’intero sistema Paese e chiedersi se le modalità con le quali vengono accertate le “competenze” dei candidati, in un concorso, un bando o una semplice scelta ad personam siano realmente efficaci. Basare tutto sulle nozioni o sulla meccanicità delle operazioni da svolgere è davvero la priorità in un lavoro che fa del contatto con il pubblico e quindi dell’imprevisto quotidiano il fattore principale?
Siamo sicuri che questo sistema permetta di valutare e selezionare nel migliore dei modi? Francamente, io non credo. Il lavoro è un’entità complessa, che evolve, si trasforma, e obbliga i lavoratori ad adeguarsi. Molto spesso, ed è questo il vero nodo cruciale della Pubblica Amministrazione, il lavoro viene adeguato ai lavoratori, ritoccato al ribasso, con tutto ciò che ne consegue…
Il lavoratore pubblico, come dice la parola stessa, dovrebbe conoscere la società in cui lavora ed essere a disposizione di essa e non dei suoi interessi personali. L’accertamento delle competenze, in fin dei conti, passa attraverso un cambio di paradigma: vieni scelto perchè “sai fare” o perchè “sai far credere”? Questo è il problema.
Filippo Folliero