Il 13 settembre 2005, lo scoppio di una “epidemia” causata da un bug in un popolare gioco online ha portato gli scienziati a considerare come il mondo virtuale possa rivelarsi utile nel fornire indizi su ciò che le persone farebbero in casi analoghi nel mondo reale. Nel gioco di ruolo World of Warcraft (WoW), l’incantesimo Corrupted Blood (Sangue Corrotto) uccise personaggi e colpì i giocatori in modi inaspettati.
Il bug si trasmetteva ad altri giocatori sani per prossimità, così come farebbe una malattia contagiosa, e nel gioco si registrò un’interessante diversità di risposta da parte dei giocatori alla minaccia di infezione, simile a quella osservabile nella vita reale.
“I giocatori sembravano davvero essere a rischio e presero sul serio la minaccia di infezione anche se era solo un gioco” – ha commentato la dott.ssa Fefferman, co-editrice con il dott. Eric Lofgren dell’articolo su Lancet Infectious Disease che discute le implicazioni dell’epidemia virtuale sugli studi epidemiologici.
Una volta raggiunte le aree più popolate, la velocità del contagio aumentò esponenzialmente. Alcuni agirono altruisticamente correndo in aiuto di altri personaggi, anche se ciò significava rischiare “personalmente” di essere infettati, altri fuggirono dalle città infette nel tentativo di salvarsi raggiungendo le aree più remote, altri ancora decisero di divertirsi ad infettare deliberatamente gli altri.
Nella ricerca, al ruolo attivo dei giocatori è stato affiancato quello passivo degli NPC – Non-Player Character, personaggi che non sono sotto il controllo diretto del giocatore, ma gestiti dalla IA del software. Durante l’epidemia, gli NPC agirono come soggetti asintomatici capaci di diffondere la malattia, creando una quasi infrangibile catena di contagi.
Infine, a contribuire ulteriormente alla diffusione del bug furono ancora una volta gli stessi giocatori con la loro scarsa predisposizione ad attenersi alle misure di quarantena promosse dalla Blizzard Entertainment.
La dott.ssa Nina Fefferman ha dichiarato:
“Il comportamento umano ha un grande impatto sulla diffusione delle malattie. I mondi virtuali offrono una piattaforma eccellente per studiare tale comportamento“.
Molti giocatori, inoltre, non hanno mancato di far notare che questo universo online ha una vera e propria economia pulsante al suo interno. Ci sono cose che vanno fatte e di cui si ha bisogno ogni giorno. Ci sono oggetti di lusso e diversi modi per spostarsi da un punto A ad un punto B, che è una specie di piccolo sistema di trasporti, il che si rivela essere un ulteriore fattore positivo ai fini della ricerca.
Certo, è solo un gioco, ma come fa notare anche Sherry Turkle – studiosa di scienze sociali e tecnologia al MIT – per molte persone è molto di più: “Non è che non faccia parte della tua vita reale solo perché sta accadendo sullo schermo. Si integra in quello che fai ogni giorno. […] È un gioco, ma è un gioco molto serio”.
Nell’articolo viene inoltre evidenziato quello che è il vincolo maggiore per gli epidemiologi che studiano le dinamiche delle malattie: ci si deve solitamente limitare a studi osservazionali e retrospettivi, dal momento che non si può certo rilasciare una malattia infettiva nella vita reale al fine di studiare quali potrebbero essere le conseguenze e le reazioni delle persone.
I modelli al computer consentono la sperimentazione su popolazioni virtuali, ma si basano comunque su regole matematiche al fine di simulare una reazione umana alla malattia.
Allo stesso modo, il dott. Gary Smith – professore di biologia della popolazione ed epidemiologia all’Università della Pennsylvania – ritiene che: “Pochissimi modelli matematici di trasmissione della malattia tengono conto del comportamento dell’ospite“.
Secondo alcuni ricercatori, quindi, una simulazione in un mondo virtuale con soggetti controllati da esseri umani, invece che da codici, potrebbe costituire una valida alternativa per colmare questa lacuna.
In un’intervista con PC Gamer, i ricercatori hanno parlato di come la loro ricerca sul bug di WoW abbia influenzato il loro attuale lavoro sul Covid-19.
Il dott. Eric Lofgren è un epidemiologo, lavora alla Washington State University, in uno degli Stati maggiormente colpiti negli USA dal Coronavirus. La ricerca di Lofgren si concentra sulle “infezioni associate all’assistenza sanitaria”, il che significa che lavora per prevedere l’impatto che il Covid-19 avrà sul sistema sanitario americano.
Ha detto a proposito della sua precedente ricerca sull’incidente del Corrupted Blood che per lui è stata una conferma di quanto sia importante comprendere i comportamenti individuali delle persone. Il modo in cui le persone reagiscono alla crisi è fondamentale, ma soprattutto difficile – se non impossibile – da prevedere.
“Una delle critiche che abbiamo ricevuto da molte persone, sia giocatori che scienziati, riguardava questa idea del griefing – il griefer è colui che infastidisce gli altri giocatori, costringendoli talvolta ad abbandonare la sessione di gioco”, afferma il dott. Lofgren. “Le persone non stanno cercando – diversamente dai griefer di WoW durante la crisi – di far ammalare intenzionalmente altre persone, ma ignorare la possibilità che tu possa far ammalare gli altri è qualcosa di simile. Come quelle persone che ‘Oh non è poi un grosso problema, non ho intenzione di cambiare il mio comportamento. Andrò al concerto e poi andrò a trovare comunque mia nonna’. […] Le epidemie sono un problema sociale. Minimizzarne la gravità è una sorta di griefing nel mondo reale“.
Allo stesso modo, anche la dott.ssa Fefferman riconosce l’utilità della precedente ricerca in rapporto alla minaccia Covid-19.
“Mi ha portato a riflettere molto sul modo in cui le persone percepiscono le minacce e su come le differenze in quella percezione possono cambiare il loro comportamento“, scrive la dott.ssa Fefferman, spiegando poi come, da allora, gran parte del suo lavoro sia stato incentrato sull’analisi sociale della percezione del rischio.
È innegabile che un’impostazione virtuale possa incoraggiare comportamenti più rischiosi, ossia, in WoW la morte degli avatar è temporanea. Va anche considerato, però, che comporta comunque una certa perdita di denaro e di tempo e l’impossibilità di svolgere le normali attività di gioco, motivi che spinsero i giocatori ad evitare il più possibile il contagio, il che ha enormemente contribuito a rendere più “realistica” la reazione dei giocatori e, di conseguenza, allo studio dei ricercatori.
Alla fine, la Blizzard Entertainment si vide costretta a resettare i server per rimuovere il bug, opzione che – superfluo ricordarlo – non è a noi disponibile. È d’obbligo quindi fermarsi a riflettere sull’importanza del comportamento individuale in situazioni di crisi come questa che stiamo vivendo ora.
Francesco Albanese