Terremoto in Irpinia, gli strascichi 40 anni dopo: Senerchia, storia di un borgo ferito (FOTO)

Nessuno se lo aspettava.

Nessuno poteva immaginare che la terra potesse tremare sotto i propri piedi, che un’abitazione potesse crollare in pochi secondi, che un paese potesse sparire con tutta la sua storia. Quando il 23 novembre 1980, alle 19:34, una scossa sismica di magnitudo 6,9 (X grado della scala Mercalli) colpì l’Irpinia meridionale e la Basilicata centro-settentrinale, colse tutti impreparati.

Morirono più di 2.900 persone, più di 8.800 furono i feriti e circa 280.000 gli sfollati e, ancora oggi, tristemente si ricordano Castelnuovo di Conza rasa al suolo e Laviano che ha perso circa 3/4 di tutti i suoi abitanti. Sono passati quarant’anni da allora. Conosciamo le vicende di quella indimenticabile domenica sera di novembre attraverso i racconti dei sopravvissuti; spesso dai ricordi dei nostri cari o tra le righe delle testimonianze di chi era lì e ha perso pezzi di vita sotto le macerie.

Quella che vi raccontiamo noi oggi è la storia di Senerchia, comune nella provincia di Avellino, situato nell’Alta Valle del Sele alle pendici del Monte Boscotiello (Monti Picentini). Ma la storia di Senerchia, anch’essa colpita dal “terremoto dell’80”, non si limita ai 90 secondi di quel drammatico evento sismico; il paese, negli anni a seguire, è diventato un esempio emblematico di uno dei punti deboli del territorio campano: il dissesto idrogeologico.

Perché parlare del dissesto idrogeologico del disastro sismico che ferì l’Irpinia meridionale?

A qualche ora di distanza da quella scossa che fece collassare il borgo, seguì una rovinosa frana in località di Serra dell’Acquara che generò un movimento di massa fangosa di circa 2 chilometri e mezzo, per una larghezza di 500 metri e una profondità di 30, che durò circa due settimane e che causò altri fenomeni franosi secondari ai lati della frattura in slittamento. La frana travolse i terreni di proprietà delle famiglie che vivono, ancora oggi, lungo il pendio: il fango trascinò via raccolti, piantagioni e bestiame, tutte fonti di sostentamento di un paese dall’impronta agricola.

Quest’anno ricorre il quarantesimo anniversario dal terremoto che sconvolse il centro-sud italiano. Com’è oggi, a distanza di tanti anni, uno dei tanti paesi colpiti dal sisma ce lo ha raccontato Mino De Vita, cittadino di Senerchia legato con devozione alle sue radici.

Quarant’anni dopo

“La ricostruzione delle abitazioni è stata fatta, seppur con estrema lentezza. I lavori di ricostruzione si sono concentrati principalmente tra il ’92 e il 2013. Ma per quanto riguarda la frana, ben poco è stato realizzato per risanare una ferita che è ancora aperta”.

I primi lavori per la messa in sicurezza del centro abitato furono eseguiti negli anni ’90. Le opere di consolidamento non si sono mai completate tra mancanza di fondi, di progetti e dei residui di finanziamenti che non sono stati utilizzati. La causa: le scadenze della consegna dei lavori troppo vicine e la complessità delle opere di messa in sicurezza. Nel maggio del 2017, però,  grazie ai finanziamenti del POR Campania FERS 2014-2020 fu iniziarono i lavori volti al contenimento di questi continui slittamenti, iniziati con il sisma dell’80 e che nel corso degli anni hanno continuato a verificarsi.

“Una fetta abbastanza importante dell’economia – ci spiega Mino – viene dalle attività agro-zootecniche. Non abbiamo molte altre forme economiche nel comune di Senerchia e questo fattore sembra non essere stato preso in considerazione”

Senerchia, come tanti altri borghi su tutto il territorio italiano, soffre un altro triste fenomeno: la desertificazione sociale delle aree interne. Con la continua e sempre più veloce urbanizzazione delle grandi città, apparentemente nuclei di opportunità lavorative e sociali, i piccoli borghi si svuotano prendendo le sembianze di villaggi fantasma.

Come responsabile commerciale nel settore delle telecomunicazioni, Mino crede che paesi come Senerchia possano essere salvata con l’investimento da parte delle amministrazioni nella banda ultra larga, “neo-volano di sviluppo” economico e di forze lavoro in tutta la penisola.

“Sfruttare questa opportunità nelle aree interne, potrebbe essere una soluzione alla desertificazione sociale. Con un dovuto disegno strategico e con una riflessione lungimirante, questa rivoluzione tecnologica potrebbe salvare i piccoli paesi come Senerchia permettendo anche ai suoi giovani di realizzare i propri sogni senza dover essere costretti a lasciare i propri affetti – e conclude – Ma come ci ha tristemente insegnato il dopo terremoto, rinascere non è stata un’occasione di sviluppo che ha saputo portare ricchezza”.

Eri uno studente all’Università degli Studi di Siena quando la terra tremo nel 1980. Perché sei rimasto a Senerchia?

“Io amo profondamente la mia terra. Quando ho scelto di restare qui, l’ho fatto guardando le cose in prospettiva: volevo che i miei figli crescessero qui, imparassero il mio dialetto e continuassero a parlarlo; volevo continuare a vivere con le persone con cui avevo condiviso l’infanzia e con quello che era rimasto della mia famiglia. Ho dato ragione al cuore. Ma col senno di poi, non avrei fatto lo stesso”.

Con un po’ di rammarico ma con obiettiva consapevolezza ci dice: “le mie figlie sono professioniste. Per affermarsi in ciò che hanno scelto di fare, devono andar via da qui. Il loro cuore dice che l’amore che provano per il lavoro deve porterà fuori da qui – e conclude – a Senerchia c’è stata la ricostruzione delle abitazioni, ma non è stato ricostruito il tessuto sociale”.

Jessica Moscato

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