L’IVG specchio di una società ancorata ai suoi retaggi: storia di un aborto libero e incondizionato

L’interruzione volontaria della gravidanza (IVG), comunemente detta aborto, è stata introdotta dalla legge del 1974, adottata nel 1978 (194/78) e bissata da circa l’88% degli italiani che hanno respinto il referendum abrogativo del 1981 che mirava a sopprimerla. 

Prima dell’intervento del legislatore, l’aborto era regolato dagli articoli 545 e seguenti del Codice penale, che prevedeva pene sia per chi causava l’interruzione e per la donna stessa (reclusione fino a 5 anni se questa era consenziente). Grazie alla legge 194/78, le donne italiane hanno quindi potuto usufruire dell’IVG a patto di rispettare il limite dei novanta giorni dall’ultima mestruazione. Si noti quindi che la temporalità non è assolutamente precisa, creando di fatto confusione in molti casi nel rispetto di questo limite.  

Esistono principalmente due maniere di procedere: chirurgicamente attraverso l’intervento invasivo dello specialista o farmacologicamente attraverso l’assunzione di un farmaco (pillola ru486). Ad oggi, i tempi per accedere alle due forme di aborto sono diversi: nove settimane per la farmacologica, dodici per la chirurgica. Al di là delle dodici settimane, l’aborto resta possibile in alcuni casi eccezionali (fino alla sedicesima settimana) e il processo avviene tramite aspirazione del feto. In Italia, la pratica chirurgica è di gran lunga la più utilizzata. 

LE CIRCOSTANZE DELL’ABORTO – La legge 194/78 è abbastanza chiara, ma allo stesso tempo è il riflesso di un compromesso sociale. Per potere abortire, la maternità o la gravidanza devono rappresentare un attentato all’integrità del corpo della donna sia dal punto di vista psichico che fisico.  Quest’attentato può essere causato o dalla conformazione del (non ancora) concepito, oppure essere in relazione alle condizioni economiche, sociali o familiari. Se questo attentato non si riproduce, l’aborto non è praticato. In ogni caso, l’aborto è una scelta cosciente della donna e il marito non deve intervenire in alcun modo in questa decisione libera e illuminata della donna, sola depositaria del proprio corpo. 

La donna in condizione di abortire coscientemente deve rivolgersi ad un consultorio pubblico che, tra le altre cose, ha il compito di rimuovere le cause che porterebbero all’aborto (la figura del padre interviene in consultorio solo dopo consenso della donna) per far valere i suoi diritti di “lavoratrice e di madre”. Ovviamente, con uno sguardo postumo, questa legge appare ancorata ad una visione androcentrica, in cui un consultorio, spesso composto da uomini, deve convincere la donna a superare le difficoltà per evitare l’aborto.  

LO SCOGLIO DEI MEDICI OBIETTORI – Anche la possibilità di abortire dipende molto dal luogo dove si nasce o si vive. E non conviene sempre vivere al nord. La legge 194/78 prevede l’obiezione di coscienza al suo articolo 9 comma 3, sostenendo che “l‘obiezione  di  coscienza esonera  il  personale  sanitario  ed esercente  le  attività  ausiliarie dal compimento delle procedure e delle  attività  specificamente  e  necessariamente   dirette  a determinare  l’interruzione  della  gravidanza”. 

Nascere in provincia di Bolzano significa avere solo meno dell’8% di probabilità di trovare un medico non obiettore, stessa cosa per il Molise. Se si esclude la sola eccezione della Valle d’Aosta dove i medici obiettori sono meno del 14%, l’Emilia-Romagna con solo il 48% di medici non obiettori risulta essere la regione più virtuosa.  

Complessivamente male le regioni del sud, con valori compresi tra l’80 e il 90% dei medici che applicano la clausola di coscienza. Abortire in Italia è un’impresa, e anche quando ci si riesce (è il caso di circa 75.000 casi all’anno), il percorso è ripidissimo. Inoltre, per coloro che decidessero di rivolgersi alle cliniche private, un aborto può costare fino a 3.000 euro. 

ALLUNGARE I TEMPI – Nel resto d’Europa (intesa al livello geografico), il discorso è ben diverso. In Spagna, Regno Unito e Olanda è possibile praticare l’IVG ben oltre le dodici settimane previste dalla legge italiana. In Spagna siamo a venti settimane, in Olanda a ventidue (con l’obbligo di sottostare a un percorso di riflessione di cinque giorni) e nel Regno Unito di ventiquattro. In Francia, una proposta di legge per allungare il limite era passata lo scorso anno alla Camera dei deputati per essere poi respinta dal Senato, dove la destra ha la maggioranza. 

Allungare i tempi dell’IVG contribuirebbe prima di tutto a compensare l’imprecisione dei novanta giorni dopo l’ultimo ciclo mestruale. Inoltre, abortire è, per molte donne, una scelta difficile, soprattutto in casi in cui l’entourage influenza le sue scelte. Molte donne italiane decidono quindi di espatriare e di sottomettersi all’operazione in altri paesi, pagando quindi di tasca propria. Allungarne i tempi significherebbe quindi permettere a centinaia (se non migliaia) di donne di abortire vicino casa. 

In un paese in cui il simbolo religioso ha ancora un potere molto forte, l’IVG è diventato un argomento politico, di dominio pubblico, in cui perfetti sconosciuti si arrogano il diritto di parlare a nome delle donne che devono fare questa scelta (in totale autonomia). Il corpo delle donne diventa quindi un territorio da esplorare e su cui accampare battaglie politiche in difesa della “vita”. Ma quale vita? Si preferisce salvaguardare gli interessi di un embrione piuttosto che quelli di una donna che, coscientemente, rifiuta la gravidanza. Perché a un certo punto bisogna pur ricontestualizzare il tutto. 

Supportare l’idea che le donne abbiano diritto all’aborto solo in caso di stupro è paternalistico, inappropriato ed egoistico. Ognuno deve poter decidere autonomamente cosa fare del proprio corpo e della propria vita.  

Allungare i tempi previsti dalla legge 194/78 ad almeno sedici settimane e sopprimere l’obiezione di coscienza (riducendo quindi l’aborto a quello che è, ovvero un’operazione medica) costituirebbero il primo passo verso diritti che prendano davvero in conto le esigenze delle donne, abbandonando ogni sciacallaggio politico fatto sul corpo altrui. Anche questa è violenza. 

Francesco Mirra

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